per non dipendere
..e farsi del male..
Nella gabbia delle addiction. Non per le sostanze ma per le condizioni di vita
Negli ultimi tempi è molto diffuso in rete, e tra gli operatori che lavorano su questi temi, il video "Addiction" (in italiano si traduce con "Dipendenza"), realizzato sotto la supervisione dello scrittore e giornalista Johann Hari, autore del saggio "Chasing the scream. The First and Last Days of the War on Drugs".
Nel video viene contestato il principio secondo il quale, a causare la dipendenza da una sostanza, in questo caso eroina o cocaina, sia la sostanza stessa. Questa teoria si basa principalmente sull'esperimento "Rat Park", realizzato alla fine degli anni Settanta e pubblicato nel 1981 dallo psicologo canadese Bruce Alexander. L'esperimento era volto a dimostrare che la dipendenza da cui erano affetti i topi di laboratorio non era data dalla sostanza in sé, ma dalle condizioni di vita del topo e dal suo isolamento. Le cavie, infatti, stavano rinchiuse in piccole gabbie da sole, senza contatti con altri simili, e potevano solamente scegliere tra un erogatore di acqua e uno di una soluzione di morfina e acqua. I topi, in queste condizioni, diventavano presto dipendenti e sceglievano la sostanza fino a morirne.
Bruce K. Alexander e i suoi colleghi decisero di provare a cambiare il contesto in cui vivevano le cavie: con l'intento di ricreare un ambiente naturale, costruirono un parco grande duecento volte la solita gabbia, dipinsero le sue pareti con alberi e foreste e al suo interno misero giochi, palline colorate, tunnel, spazi per appartarsi, buon cibo e i due erogatori di gocce: da una parte l'acqua mista a morfina, dall'altra l'acqua del rubinetto. Nel parco furono inseriti esemplari maschi e femmine, consentendo loro di giocare e interagire come volevano. Nel frattempo, altri tre gruppi di cavie partecipavano all'esperimento della durata di 80 giorni: uno di essi stava per tutto il tempo nelle gabbie da laboratorio; un altro usciva dalle gabbie dopo 65 giorni per entrare nel "Rat Park"; il terzo viveva per 65 giorni nel parco per essere poi immesso nelle piccole gabbie singole. Al termine degli 80 giorni, le cavie delle gabbie avevano assunto fino a 19 volte in più di morfina rispetto a quelli del Rat Park. L'esperimento sembrò dimostrare pienamente la teoria di Alexander. Ma i fondi per continuare la ricerca furono sospesi e le principali riviste scientifiche non pubblicarono i risultati.
Il professor Alexander ha però proseguito i suoi studi in questa direzione, sottolineando la fondamentale importanza del contesto sociale sullo sviluppo della dipendenza, sia nel caso delle addiction da sostanze stupefacenti, sia in quello legato a comportamenti di vario genere (gioco d'azzardo, internet, cibo e shopping, pornografia, lavoro, ecc.). Ci sarebbero altre due prove a dimostrazione della sua teoria: da un lato, il fatto che la morfina sia usata quotidianamente in ambito ospedaliero senza provocare dipendenza; dall'altro, l'esperienza della guerra in Vietnam, tra il 1955 e il 1975. Nel video si sostiene che circa il 20% dei soldati al fronte faceva largo uso di eroina e che c'era la comprensibile paura che, una volta a casa, ci sarebbero stati molti più "tossici" per le strade. Uno studio, di cui non viene citata la fonte, ha seguito i soldati scoprendo che il 95% di loro ha semplicemente smesso al ritorno. La teoria è simile a quella delle gabbie e spiegherebbe il tutto: costretti a stare in un paese straniero, nella giungla, rischiando di morire e dovendo uccidere, consumare eroina diventava un modo per affrontare la guerra, ma una volta tornati a casa tra familiari e amici è stato per i soldati come entrare nel "Rat Park".
Secondo l'approccio adottato dagli operatori dei progetti di prevenzione del territorio (Guida la notte, Freezone, Il Paese delle Meraviglie, In Sostanza, Loop), durante i laboratori nelle scuole dedicati al tema delle sostanze stupefacenti, i fattori da tenere sempre in considerazione sarebbero tre. Il riferimento è allo psichiatra e psicoanalista statunitense Norman E. Zinberg che, alla fine degli anni Ottanta, ha evidenziato i tre elementi che sempre concorrono nelle esperienze di consumo: drug, set e setting: la sostanza (il tipo e la sua modalità di assunzione), l'individuo (la persona e il suo stato psicofisico) e il contesto. Se l'ambiente nel quale avviene il consumo è fondamentale, lo sono altresì le peculiarità e le caratteristiche individuali del soggetto, globali e contingenti; così come la qualità e la quantità della sostanze stesse, senza dimenticare che alcune di esse attivano con più facilità e rapidamente di altre forme di dipendenza.
Per approfondimenti, si consigliano questo speech di Johann Hari, un paper di Peter Cohen in cui l'autore contesta l'idea di dipendenza e propone il concetto di legame, e un interessante testo di Norman E. Zinberg.
"Non facciamoci fottere dai sentimenti", in un libro lo psichiatra Michael Bennett riassume 10 cose da "mandare al diavolo" per essere felici
Al diavolo l'autostima, la serenità, il dialogo. Al diavolo anche l'amore, le responsabilità genitoriali, le terapie. Ad autorizzarci a "mandare all'aria" tutti questi aspetti sacri della vita non è un folle, ma un autorevole psichiatra americano, con oltre quarant'anni di esperienza clinica, Michael Bennett. Insieme alla figlia Sarah, commediografa, sceneggiatrice e giornalista, il medico ha scritto un libro dal titolo accattivante: "Non facciamoci fottere dai sentimenti" (Vallardi). Sottotitolo: "Consigli di un grande psichiatra per gestire i problemi impossibili". Una "doccia gelata", come lo ha definito il New York Post, che parte da un assunto semplice: la vita è spesso ingiusta e frustrante e ci sono cose che non possono essere cambiate. Quindi tanto vale gettare la spugna e smetterla di lottare.
Nessuna frase rassicurante né inviti a pensare positivo: il libro dei Bennett vuole dare uno scossone proprio a chi tende a credere alle false speranze date da alcuni psicologi o a chi si pone obiettivi irrealizzabili. I loro metodi, già messi a punto sul sito fxckfeelings.com, hanno avuto un enorme successo di pubblico. "Non siamo contrari alla felicità, bensì alle responsabilità eccessive che ci si attribuisce quando non si è soddisfatti - si legge nell'introduzione -. Non sono i sentimenti a far girare il mondo e sono molte le cose che non si possono cambiare, ma accettando i propri limiti e smettendo di andare a caccia di un automiglioramento illimitato, si può compiere qualche progresso e affrontare concretamente tutti gli ostacoli che la vita pone sul nostro cammino".
"È indispensabile accettare che certe mete sono irrealistiche - scrivono i due -. Se volete smettere di sentirvi in colpa, dovete riconoscere che la depressione è spesso una malattia cronica, incurabile e al di fuori del vostro controllo. Interrompete le terapie che non vi sembrano efficaci e fate tutto ciò che potete di positivo per aiutarvi a sopportare di convivere con la vostra malattia o il vostro problema. Rassegnatevi al fatto che da certi lutti non si può guarire, smettete di rivangarli, abituatevi a convivere con il dolore e forse riuscirete a ricostruirvi un'esistenza. Ammettete che provate l'impulso irrefrenabile di consumare sostanze tossiche, che siete attratti inevitabilmente da un certo tipo di persone, che non riuscite a controllare alcuni vostri aspetti caratteriali. Piantatela di crogiolarvi nelle vostre debolezze: accettatele e smettetela con i piagnistei!".
Tentare a tutti i costi di cambiare il proprio carattere o quello del proprio partner, figlio, capo, genitore può essere frustrante. Secondo gli autori, "l'unico libro che possa veramente insegnare a cambiare il modo di pensare altrui è un manuale di lobotomia". Ma si può imparare a gestire la delusione, il rancore, il senso di vuoto, non allontanandoli come sentimenti negativi, ma accettandone l'esistenza, dandogli la mano. Con disegni, schemi, liste, i Bennett cercano di semplificare al massimo alcuni problemi, offrendo una soluzione che spesso è proprio l'unica a cui non si era mai pensato. Ecco una lista di cose che i due autori decidono di mandare al diavolo (salvo, alla fine, mandare al diavolo anche se stessi):
1. Al diavolo l'automiglioramento!
Tenere conto dei propri limiti: è questo il vero obiettivo che deve considerare chi intenda migliorarsi. "Cercare di migliorare se stessi è ammirevole, ma noi siamo i primi a dirvi che essere disposti a compiere qualsiasi sacrificio per raggiungere quell'obiettivo non significa necessariamente che ci si possa riuscire. Non si può diventare più alti una volta terminata la crescita fisica; analogamente esistono dei limiti alle proprie capacità intellettuali, per quanto ci si sforzi", si legge nel capitolo dedicato.
2. Al diavolo l'autostima!
L'autostima è sopravvalutata e i due autori ne sono convinti. Avere stima di se stessi è un punto a proprio vantaggio, ma spesso si esagera. "In realtà, le persone che si considerano soddisfatte a causa di fattori che non sono in grado di controllare sono le prime a sentirsi mancare il terreno sotto i piedi quando hanno un colpo di sfortuna e perdono i pilastri su cui poggia la loro vita".
3. Al diavolo la serenità!
Si parla sempre in termini negativi di stress: eppure, come la paura, è uno strumento di difesa primordiale. Quindi vale la pena imparare a conviverci: "Volersi sbarazzare a tutti i costi dello stress, che sia una forza positiva o negativa, o entrambe le cose, è futile, dannoso e contrario all'umana natura", scrivono i Bennett.
4. Al diavolo la giustizia!
Alcune persone sono devote alla giustizia: inseguono l'ideale, non sopportano i soprusi. Eppure, il mondo è pieno di ingiustizie. Quindi, come difendersi? In alcuni casi, "accettare di essere stati fregati e rendersi conto che opporsi a un'ingiustizia peggiorerebbe ulteriormente la situazione - scrivono gli autori - è l'unico modo per continuare a vivere, farsi coraggio e trattare gli altri con la correttezza che pretendiamo per noi stessi".
5. Al diavolo la disponibilità!
Essere disponibili è una virtù, ma può essere anche molto pericoloso. Gli autori invitano ad andarci cauti: "L'aiuto indiscriminato, se non è rivolto nella giusta direzione, può essere deleterio e potenzialmente rischioso. È sicuramente nobile sacrificarsi per gli altri, ma non quando i benefici che si possono ottenere sono scarsi, mentre i costi e i rischi sono elevati".
6. Al diavolo l'amore!
Qui il discorso si fa complicato. Ci sono un bel po' di cose da accettare: il fatto che il carattere del partner non possa e non debba essere cambiato, l'imperfezione dell'amore, la sua assenza. A volte bisogna soltanto smettere di cercare di trasformare chi si ha accanto: "Se vi rendete conto che l'amore è anche questione di fortuna e ne accettate le frustrazioni e le sofferenze, talvolta inevitabili, potete sopravvivere e imparare dai vostri sbagli".
7. Al diavolo il dialogo!
A volte comunicare con qualcuno è difficile, altre volte impossibile. Basta chiedersi perché e non forzarsi a farlo. "Se volete esprimere qualcosa che forse sarebbe meglio tacere, cercare di dialogare fa più male che bene. In definitiva, è essenziale rendersi conto che le proprie capacità di dialogo non sono inesauribili e che in certi casi comunicare è impossibile", scrivono gli autori.
8. Al diavolo le responsabilità genitoriali!
Crescere un figlio può essere frustrante: spesso non ci si sente all'altezza del compito, si fanno paragoni con altri genitori. Secondo gli autori, bisogna prendere il ruolo genitoriale più alla leggera: "Siate orgogliosi di voi stessi, non tanto per aver generato un bambino sano, quanto perché fate del vostro meglio per favorire il suo benessere e la sua salute in un mondo caotico - scrivono -. Mettere al mondo un figlio non è un miracolo; lo è piuttosto crescere un figlio sano nonostante tutti gli ostacoli che la vita ci mette davanti".
9. Al diavolo gli stronzi!
In questo caso la lista è lunga: nella categoria può rientrare un parente, un collega o il proprio capo. Imparare a conviverci, qualora la sua presenza non possa essere evitata, è la chiave del successo: a volte bisogna solo far finta di essere invisibili o addormentati, così come si farebbe di fronte ad un orso affamato.
10. Al diavolo le terapie!
Scegliere di andare in terapia è ammirevole, ma è sbagliato aspettarsi un'illuminazione che cambi la vita o un sollievo perpetuo da tutti i problemi. Chi sceglie di intraprendere questo percorso, deve sceglierlo in maniera consapevole. Sapendo che esistono anche delle alternative: l'esercizio fisico, la dieta, lo yoga. Ma "tenete conto che c'è il rischio di infortunio", scrivono gli autori, e "considerando che già stavate male, potreste stare peggio".